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OSTENSIONE DELLA SINDONE DEL 1978

 

“Fra le tante esperienze ne sono emerse due, condensate attorno ai due poli giustapposti: quello del raccoglimento e quello della celebrazione. Il primo polo coincide di per sé con il lenzuolo della Sindone,  ben illuminato, libero soprattutto da cornici, decorazioni, parati, evitando toni di enfasi, meraviglia, trionfalismo. Il grande telo è stato esposto nella sua interezza, racchiuso in una cassa con base in acciaio in quattro millimetri di spessore, bordi in profilato, fronte in tre strati di cristallo. […] Questa teca di grande rigidezza, di grande peso, è sostenuta sopra l’antico altare da una struttura di ferro opaco: così da apparire isolata, nel vuoto dell’abside del Duomo: sullo sfondo la cappella costruita da Guarini alla fine del Seicento, proprio perché vi fosse custodita la Sindone: i marmi grigio neri delle pareti a rilievo, compresi fra base e tiburio, sono visti dall’interno e dal basso, attraverso la grande vetrata antica. La distanza fra navata del Duomo e cappella, la leggera deformazione delle immagini operata dai vetri originari (soffiati e lavorati a mano), il contrasto nuovo delle luci naturali giocano da fondale architettonico, di notevole sostanza, di misterioso peso; l’effetto che ne risulta infatti non è  infatti di scenografia, ma di architettura.

Questo spazio sfondato domina anche sul secondo polo dell’allestimento, quello dedicato alle celebrazioni liturgiche. Per realizzarlo è stato liberato il presbiterio delle sue sovrastrutture; per realizzare una pedana circondata dalla folla dei fedeli, dalle sedi dei concelebranti: al centro un altare quadrato, simbolo geometrico di presenze uguali. Il tono indaco del feltro che riveste la pedana, sedili, altare, accresce il contrasto tra il neutro aspetto degli inserimenti e il peso dei materiali antichi (pietra, marmi, intonaco). Nella semioscurità, anche diurna, nella dosatura delle luci d’ambiente variamente diffuse, le strutture rinascimentali, opera tardo quattrocentesca di Meo del Caprina e Baccio Pontelli, assumono una intonazione decisamente arcaica, che fa affiorare lo schema ancora medievale dei pilastri compositi, delle volte a crociera. Chi andasse in cerca, nel corso di quest’autunno culturale italiano, di un’esperienza da ricordare, potrebbe anche tenere conto della singolare proposta che viene da Torino

Nel contesto di tanti oggetti nuovi, disposti con regia accorta, sono evidenti i contributi dati nel corso di qualche decennio, da architetti italiani a temi museografici. I giovani architetti Bellezza e Momo hanno definito il disegno delle superfici e delle strutture precisando e difficili mediazioni dei toni, con raccordi abili e precisi. Il loro lavoro ha radice nelle singolari esperienze che la situazione torinese ha registrato in questi decenni, con autonomia e senso di rischio”. (R. Gabetti).

 

 

1978

 

Con G. Bellezza

 

 

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